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La centunesima infelice

incipit

 

 

Cominciò, credo, appena venni al mondo e i campanili della città suonarono per tre minuti buoni.

Capitò perché nacqui a mezzogiorno in punto? Papà ne è convinto.

Mi racconta sempre che nel preciso istante in cui vide spuntare la mia testa tra le gambe della mamma, i campanili cominciarono a suonare. Tutti i centouno campanili di Venezia, dice lui. Perfettamente a tempo. Come le atlete del nuoto sincronizzato? aggiungo io. Lui ride e mi risponde che sì, suonarono proprio così.

Capite che è strano?

Un'altra. Non ho parlato correttamente fino ai due anni e mezzo di età. Poi un giorno -mia madre potrebbe giurarlo- farfugliai di botto un'intera frase. Qualcosa che suonava come "salve rina è qui suo genero". Mi trovavo con i miei genitori sul Ponte dell'Accademia quando dissi quella frase sorprendentemente complessa, e avevamo appena incontrato mia nonna Caterina.

Rifletteteci: salve rina è qui suo genero...

Da allora cominciai a parlare come un adulto di media istruzione.

E ancora. A sette anni leggiucchiavo il latino. Nessuno me l'aveva insegnato.

A dieci indicai Palazzo Contarini dal Zaffo come Casino degli Spiriti, il nome che a volte i veneziani gli affibbiano. La nonna, che mi stava accompagnando a giocare da un'amichetta, mi spinse dentro al primo portone di chiesa che incontrammo sulla strada e mi obbligò a dire una decina di avemarie.

Ma veniamo alla più bella. Eravamo in Piazzetta. Mamma e papà ci avevano portate a fare una passeggiata. A quei tempi Jacopo, il più piccolo di noi tre, non era nemmeno in programma e io e mia sorella potevamo ancora spartire tra di noi i nostri genitori. Mio padre toccava a me e mia madre ad Annagiulia, difficilmente le alleanze si ribaltavano.

Papà aveva l'abitudine di comprare i panini con l'uvetta dal fornaio sotto casa.

Sono buonissimi i panini con l'uvetta. Il fornaio sotto casa li glassa con lo zucchero e sono così appiccicosi che, dopo averli mangiati, tocca lavare le mani. Ne avevamo uno per uno noi ragazze, e i nostri genitori se ne erano divisi fra loro un terzo.

Camminavamo verso la Torre dell'Orologio. Io avevo appena finito di mangiare e mi ero messa le mani in tasca. Le strofinavo contro la tela per cercare di ripulirle dallo zucchero, quando mi sfuggì un sospiro.

Fu così teatrale che i miei genitori si fermarono. Ridacchiavano. Ricordo perfettamente la faccia di mia madre che rideva con la Basilica alle spalle. Un pezzetto della buccia scura, appiccicosa, del panino con l'uvetta, le era rimasto incollato su un dente.

«Che hai?» mi disse mio padre.

«Niente.» risposi io. «È per il povero, povero fornaio.»

Vidi il sorriso di mia madre congelarsi. «Chi glielo ha detto?» sibilò rivolta a mio padre.

«Cosa sai del fornaio?» mi chiese papà di rimando.

«Solo che non ha colpa.»

La mamma scosse la testa. «Tua madre non sta mai zitta!» disse a papà. Lui replicò qualcosa e cominciarono a litigare.

«Hai rovinato la passeggiata.» mi disse Annagiulia e corse dietro ai miei.

Io feci spallucce. Non capivo. Il nostro fornaio era stato vittima recente di un caso di malagiustizia, qualcosa di particolarmente scandaloso di cui non conoscevo i particolari. Non era stata la nonna a parlarmene, nessuno me ne aveva parlato. Eppure, passando vicino alla Basilica, la notizia si era disegnata nella mia mente.

Non capivo a quel tempo. E nemmeno ci davo troppo peso.

Intuivo che in me qualcosa non quadrava ma rifiutavo di crederlo possibile. E il ricordo delle stranezze che a volte mi succedevano -di quei fatti inspiegabili-, veniva accantonato in qualche recesso della mia mente. Allontanato come un parente scomodo e un po' imbarazzante.

Poi capitò quella cosa di Ca'Dario e dovetti accettare l'evidenza.

Dicono che Ca'Dario, quel palazzo veneziano dalla stramba simmetria, uccida i suoi proprietari. Una "storia vera" quanto quella dell'autostoppista fantasma che dimentica la giacca sul sedile dell'auto. Leggenda metropolitana, dunque. Bufala mediatica, folklore. Fate voi.

A ogni modo, quel giorno ero in cima al Ponte dell'Accademia con Gianmaria d'Este, ferma ad aspettare che mia sorella finisse la sua telefonata. Annagiulia parlava e prendeva appunti appoggiandosi al legno della balaustra e noi, poco distanti, guardavamo le barche passare. Giammy sputava cercando di colpirle e io fissavo l'acqua pensando al giorno del mio tredicesimo compleanno. Il giorno in cui Gianmaria, il mio ragazzo, aveva baciato mia sorella ed era diventato il suo ragazzo.

A un certo punto disse «Lo vedi quel palazzo con quei cosi tondi a ogni piano?». Indicava proprio Ca'Dario. Dal Ponte dell'Accademia lo si vede un po' di sbieco. «Dicono che sia maledetto.»

Annuii distrattamente. E poi, quasi senza volerlo, mi venne fuori la frase che a due anni e mezzo aveva dato inizio al mio eloquio. «Salve rina è qui suo genero.» commentai.

D'Este fece una faccia come per dire tu sei matta e mentre lui la faceva, io sentii tossicchiare.

«Sub ruina insidiosa genero.» disse qualcuno. E io ripetei.

«È l'anagramma di Genio urbis Joannes Dario, l'iscrizione sulla facciata.» continuai. «Significa: Giovanni Dario, al genio della città.»

«E l'altra roba?» chiese Giammy.

«Porto disgrazia.»

Gianmaria aveva abbassato gli angoli della bocca. Annuiva con fare compreso. «Lo sapevo anch'io, solo che non me lo ricordavo.» disse dopo un po'.

In quell'attimo si avvicinò mia sorella.

«Io no che non lo sapevo...» dissi. Ma Annagiulia e Gianmaria si erano già rimessi in marcia.

Mi attardai ancora un istante.

«Zotico villano...» mi sembrò di sentire. Lo dissi anch'io, un passante si voltò a guardarmi.

Mia sorella aveva già sceso il ponte. «Ti muovi?» gridò da giù.

Tornammo a casa quasi correndo, lo zaino ballonzolante sulla schiena. Giuly e Giammy si salutarono con un bacio sulla porta, poi salimmo.

La pasta era già in tavola.

 

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